Barcovid. The Bar is closed, the bar is in the house

Non si può mentire di fronte alla situazione che viviamo in questi giorni. Il titolo è veritiero. La pandemia da coronavirus, al di là delle questioni legate alla salute – che ovviamente viene prima di tutto – ha generato un impatto negativo su tutti i settori dell’economia. Non ha solo fatto chiudere la maggior parte delle attività, ma ha gettato un’ombra sul futuro. Molti operatori della bar industry giustamente stanno pensando a quel che accadrà domani, quando torneremo liberi di uscire dalle nostre prigioni in casa. Il problema di questa crisi economica è, come dicono gli esperti, che sia asimmetrica. Ha colpito non in egual misura i settori produttivi del Paese e sempre non in egual misura ha colpito al livello territoriale. I dati Istat lo dimostrano. I settori cosiddetti di primo impatto, i più infiacchiti, sono quello dei trasporti e del turismo cui possiamo far rientrare la ristorazione, quindi i bar, l’arte e i musei.  

I Dati

Gli occupati in questi settori, distribuiti per regioni, vedono la Liguria al primo posto con il 23,7%, la piccola Valle d’Aosta segue con il 23 e il Trentino al 20,4 (su scala nazionale la percentuale è il 13%).
occupati nei comuni a rischio
L’incidenza dell’impiego vista per provincia, cambia la geografia dei luoghi: Rimini ha il 26%, Grosseto il 25,2, Genova il 24,6 %. Continuando a scendere nel dettaglio, tra i comuni, il primo per numero di occupati è Roma (ne ha 143.451) e a seguire Milano (129.310). Genova, che è al terzo con 49.630 occupati, quindi un terzo di Roma, ha però una incidenza maggiore, col 26,3% (Roma 10,7 e Milano 10,1). Significa che considerata la popolazione del comune di Genova, Milano e Roma, è nel comune del capoluogo ligure che, rispetto all’economia locale, si ha a maggiore incidenza della forza lavoro nel turismo/hotel, ristorazione e trasporti. Tanto per fare un altro esempio, Fiumicino, che ha solo 16.179 occupati subisce il colpo maggiore vivendo essenzialmente di turismo (48,4%). Come si può immaginare, le città più colpite sono quelle a maggior vocazione turistica. Vedi Venezia (24.529 occupati e 20,7% di incidenza), Firenze (30.155 e 18,1%) e Napoli (36.083 e 14,8%). A subire tracolli saranno però anche i piccoli comuni dove la maggior parte degli occupati (almeno 1000) è impiegata nei comparti dei settori di primo impatto. In cima alla classifica c’è Limone sul Garda (82%), Montebello della Battaglia (77,6%), Corvara (65%), Selva di Val Gardena (63,4%). Non può mancare il Sud, con Amalfi (62,4%), Positano (55,9%), tanto per fare solo degli esempi. E’ quindi agevole presumere che i bar e tutti gli stakeholder del settore di questi territori risentiranno con particolare veemenza l’urto della crisi da Covid-19. Proviamo a sentire una voce del mondo degli spirits.  

Le difficoltà reali di un’impresa di liquori

Finora non abbiamo considerato l’export. L’imprenditrice Micaela Pallini, presidente del Gruppo Spiriti di Federvini che fa parte di Confindustria, in una recente intervista radiofonica su Radio Cusano Campus, riportata su alcuni siti online, è schietta nell’affermare che i “contraccolpi sono evidenti nel nostro settore”, dove per altro “già venivamo da un periodo molto difficile, perché liquori e aperitivi sono stati coinvolti nei dazi americani. Poi soffrivamo per la Brexit e per la recessione in alcune parti d’Europa”. La sua azienda ha mandato in smart working tutto il personale possibile, ha chiuso gli ultimi ordini e adesso non resta che attendere. Si studiano le carte, “stiamo cercando di capire cosa dice questo decreto e che riflessi avrà per tutto il settore. Fermare la macchina può essere molto pericoloso, per la ripartenza successiva. Per lavorare abbiamo bisogno che tutta la filiera dietro di noi sia operativa”.  

L’azione di governo: si cerca liquidità

Gli uffici dei ministeri lavorano per trovare misure anti-crisi più snelle in grado di offrire quello che alle piccole e medie imprese – il grosso del tessuto imprenditoriale italiano – servirà: liquidi, tanti e subito. Le scelte del governo vanno in tal senso ma gli imprenditori non sono ancora soddisfatti e si sta lavorando per ottenere di più. Il Fondo centrale di garanzia delle Pmi è stato allargato da 2,5 a 5 milioni di euro. Ma, dicono le associazioni di categoria, è ancora troppo macchinoso per ottenere gli aiuti. Esso prevede, infatti, un finanziamento per il 60% destinato a investimenti, quando servirebbe liquidità. Questo spingerebbe le Pmi a recarsi presso le banche per ottenerla. Inoltre si critica il governo di offrire soccorso solo a una parte della platea, per quanto grande. Germania e Francia hanno messo ben altre cifre sul piatto. La Germania in particolare ha previsto una spesa extra di 150 miliardi. Cifre folli se paragonate alle nostre. Però in Italia i soldi ci sono, o meglio, non ci sarebbero, ma basta fare debito e si rimedia qualsiasi cifra. Non sarebbe, in caso, una operazione indolore, che graverebbe negli anni a venire, almeno 20, sulle tasche dei lavoratori privati, è giusto saperlo. Nel decreto Cura Italia si prevede di fatto la possibilità di ampliare gli aiuti alle imprese oltre le Pmi, ma si prevede anche un’altra ipotesi, la Cassa depositi e prestiti, pensata soprattutto per le imprese maggiori. La Cdp potrebbe finanziare o fare da garante con le banche – necessarie per avere liquidità – ma al momento è solo una opzione, di cui si sa poco, mancando ancora i decreti attuativi che spieghino il da farsi. E proprio per sopperire a questa assenza la Cdp sta vagliando l’ipotesi di erogare soldi direttamente anche a aziende medie, allargando il raggio. Attualmente può dare prestiti solo se superiori a 25 milioni di euro ad aziende meritevoli di credito.  

Evitare gli aiuti a pioggia

Dunque, questo Covid-19 non è solo un nemico subdolo perché invisibile, ma lo è in quanto ha diffuso una crisi di sistema asimmetrica, come si diceva, con pesi e misure differenti, per settori economici e territori coinvolti. Di questo la politica economica dovrà tenerne conto, ma non sarà facile.  E’ presto per discuterne su questi spazi, anche se gli imprenditori giustamente vogliono e devono sapere, così come i dipendenti. Governo e Ue se ne dovranno fare carico. Sarebbe cosa buona e giusta non gestire il problema elargendo soldi indistintamente, ma tenendo conto delle difficoltà maggiori di alcune zone e di alcuni settori più di altri.   

Spese fisse: azzerarle?

I bar, come altre attività commerciali, in questo momento hanno zero introiti e spese fisse. Defiscalizzare gli affitti, almeno fino al 1° marzo 2021 come ha già chiesto al governo il settore moda e magari rinegoziare i contratti di locazione, almeno fino a quando l’economia non tornerà a girare, sono alcune delle misure necessarie da prendere. Per non parlare delle tasse, dall’Iva ai rifiuti, i contributi previdenziali e assistenziali. Per esempio, anche se si tratta di aziende molto più grandi, le grandi catene di retail come Old Wild West, Alice Pizza, La Piadineria, Qc Terme ,Ovs (tutti facenti capo a un private equity, BC Partners) hanno mandato i dipendenti in cassa integrazione e si sono accordati coi proprietari degli immobili per la sospensione degli affitti.  

Il bar, privo di una guida si è trasferito in casa

Coronavirus: 10 comuni con alta percentuale rischio
Quello che abbiamo registrato nei primi giorni di ‘quarantena’, è una alto grado di incertezza. Il settore del bar non sa che pesci prendere, ci si muove a tentoni. Manca una regia comune, qualcuno che si assuma la responsabilità anche di fare da semplice portavoce, condiviso da tutti, nelle sedi più opportune, visto il peso economico che rappresenta questa industria del divertimento. Roma e Milano, da sempre le piazze maggiori, da sempre rivali, continuano a muoversi a spanne, senza entrare in sinergia, ma è altrettanto vero che la Lombardia e il Nord più in generale sta pagando lo scotto più alto, per numero di contagi, morti e insofferenza del sistema sanitario al collasso. Si vedono iniziative dei singoli, che per quanto lodevoli, a stento possono bastare ai loro fautori. Qualcuno tenta la strada del delivery, non sappiamo con quanto successo. Eppure gli italiani nella borsa della spesa tengono in gran conto l’alcolico. Uno dei principali distributori di vini e liquori su Roma ha incrementato gli ordini online del 270%. Sociologi e altri esperti valuteranno a posteriori se questa vita da rinchiusi in casa ci avrà spinto a un maggior consumo di alcol. Più semplicemente, dopo giorni di clausura, ci stiamo adattando alla nuova vita casalinga, e stiamo trasformando le quattro mura domestiche in qualcos’altro, che ci possa ricordare la vita sociale di prima. Crescono video tutorial di bartender per istruire sul come prepararsi un cocktail a casa, tra colleghi ci si collega per discutere di questo o quell’altro argomento improvvisando una lezione condivisa, come sta facendo Flair Project che mixa i rudimenti del corso scolastico con le chiacchiere del format trasmesso su Radio Kaos Italy, FP On Air, la miscelazione va in radio. La voce è quella che non manca in questo momento, tutti si sentono in diritto/dovere di video-collegarsi per dire qualcosa. E’ un modo per mantenerci in contatto. Occhio, invece, agli sciacalli e alle bufale, a chi ne approfitta per vendere o comunque sponsorizzare video corsi che non rispettano la benché minima qualità. Le lezioni tecniche non si improvvisano dall’oggi al domani, nel salottino di casa. Affidatevi sempre a professionisti certificati dal settore. Certificati nel senso che possono vantare apertamente un curriculum di tutto rispetto.   

Nulla sarà come prima

La voce è quello che invece manca fuori, tra le vie deserte. Uno tsunami ha spazzato via ogni brandello di umanità. Lo scenario è apocalittico. Abbiamo migrato. Ci siamo spostati nella Rete. Forse abbiamo inconsciamente compiuto un passo in avanti verso nuove forme di futuro, nettamente più digitale. Ironia della sorte, è come se ogni generazione  debba vivere un momento di crisi grave, dopo il quale nulla dopo sarà più lo stesso. Per noi, dopo il Dopoguerra dei nostri padri, questo sarà forse il momento di rottura. Nulla sarà come prima, ci dicono. Anche i numeri lo testimoniano. Per Federalberghi il danno stimato è di mezzo miliardo di euro. La chiusura della movida solo a Roma peserebbe 40 milioni di euro al giorno, con una potenziale perdita di 15 mila posti d ilavoro.  

Il cambiamento

A Milano, se prima una camera di Hotel la pagavi 90 euro, ora è a 35-40. “L’anno scorso la prima settimana di marzo avevamo fatturato 70mila euro, adesso siamo a cinquemila”, dichiara  un titolare. Il sindaco monegasco Sala sostiene che in un paio di mesi se ne possa uscire. Lo stesso politico che il 27 febbraio ritwuittava un video con #milanononsiferma, salvo poi ripensarci, il 23 marzo, “forse ho sbagliato a rilanciarlo, ma in quel momwnto nessuno aveva compreso la veemenza del virus”. E certo, come uno schema identico a se stesso, prima nessuno sospetta, si è diffidenti, poi lentamente si chiudono scuole, uffici, bar, aziende. Così in Italia, come in altri paesi europei. La storia non ci insegna nulla. Milano all’inizio ci aveva provato davvero a rialzarsi, o quanto meno a lanciare un segnale, tanti i video e i messaggi social con l’hashtag #keepmilanoalive. Però nessuno, purtroppo, aveva fatto i conti con la realtà del Covid-19, che si è rivelato più forte. E allora tutti in casa. I primi giorni sono stati di adattamento. Abbiamo preso le misure. Per restare nel mondo del bar, non si contano le challenge sui social, a colpi di martini, c’è chi ha messo mostra la personale bottigliera e chi invece ha iniziato a diminuirla, stappando anche qualcosa di valore, ritenendo che il momento fosse quello giusto. E sì, i primi giorni sono stati vissuti tra l’incredulità iniziale e il “damose ‘na mossa” e poi, come è ovvio è arrivata la stabilizzazione. Paradossalmente anche noi ci comportiamo come un virus, vogliamo sopravvivere e in qualsiasi condizione cerchiamo il modo per farlo. Lentamente l’abitazione privata si è trasformata in ufficio, in una stazione radio o in un bancone del bar.   

L’aperitivo è social

Sappiamo di aperitivi condivisi via social, in diretta, tramite le piattaforme più note. Segno che la voglia di vivere è presente o quanto meno si cerca di mantenere in vita quegli aspetti cui non vorremmo rinunciare mai. La socialità, il contatto, sono questi i punti cardine che hanno reso i bar sempre appetibili. Perciò è lecito sperare che non appena avremo anche noi un repeal day, i bar saranno tra i primi luoghi in cui torneremo, portafogli permettendo. Da stime fatte, nella ipotesi che dopo la quarantena cali dell’80% il reddito per i lavoratori indipendenti (lasciamo il pubblico, che per ora percepisce lo stipendio), sarebbero 160 mila le famiglie che entrerebbero nella soglia di povertà, lo 0,4%. La situazione è destinata a peggiorare nel caso di prolungata quarantena.  

Riflessioni

Questa prigionia può essere utile per fare alcune riflessioni. Il bar non è un semplice esercizio commerciale. E’ casa per tanti italiani. Ci accompagna fin dalle prime ore del mattino, è il luogo dove spesso facciamo la prima colazione, il barista è il primo che salutiamo prima di andare al lavoro. E’ il luogo in cui facciamo una pausa caffè, il posto privilegiato per incontri di affari o di altro tipo. E’ il dopolavoro antistress per tutti gli adulti che vi si rifugiano qualche ora la sera prima di rientrare nella quotidianità. Pensate se, dopo la fine dell’epidemia non trovaste più il bar sotto casa per il cappuccino, o il vostro cocktail bar preferito. Adesso dove farete l’aperitivo? Oppure ancora potreste semplicemente non ritrovare il barman che vi conosceva e vi capiva con un gesto. O dal lato opposto, potreste non avere più gli stessi avventori di prima, il cliente per il suo ‘solito’. Potrebbe succedere. Mettiamolo in conto. Per il momento il bar è chiuso. Quando riaprirà, non è detto che brinderemo subito.   

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