Martini: Il re dei cocktail, il cocktail dei re

martini re dei cocktail Corso Barman Roma

Perché ordinare un martini non è una comune richiesta di un cocktail. Tutto quello che di essenziale si può raccontare per una bevuta very very dry ma, perché no, anche più sweet. Inoltre: meglio la ‘preghiera del martiniano’ o il ‘rito abbreviato’? Il pericolo del ‘frozennerdismo’ e tutte le regole di M. Guida per giovani bartender

Arduo compito quello di scrivere sul martini, su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro. Difficile aggiungere altro che già non sia stato scritto. Oltretutto è, forse, l’unico cocktail che ha un suo preciso seguito di bevitori nel mondo i martiniani – i quali hanno prodotto un ulteriore bagaglio di conoscenze e uno storytelling in parallelo al barista. Quello che segue è un riassunto che riunisce nozioni apprese dalla lettura di esperti, storie dalla viva voce di bartender e bevitori e, naturalmente, esperienze sul campo. L’intento è quello di spiegare ai giovani corsisti che si avvicinano al mondo dell’american bar quanto sia complesso, stravagante, ma al contempo semplice, l’universo dei martiniani e perché il loro cocktail abbia goduto di largo successo. Non è tutto, ma è un utile inizio.

SPIEGARE IL MARTINI È IL PRIMO PROBLEMA

martini cocktail dry Corso Barman Roma

La frusta del gin e la carezza del vermouth, come ha scritto qualcuno. Due tradizioni – una anglosassone, l’altra latina – sono riunite nel bicchiere più iconico di sempre, per la più iconica delle bevande miscelate. La definizione è calzante, ma secondo il parere dei più esperti è arduo offrire una spiegazione al contempo chiara, esaustiva e stringata. In tal senso sono chiamati a dura prova i formatori di scuole di bartending, con i corsisti che si ritrovano alle prime armi di fronte a un gigante del bere miscelato. Ci vuole del tempo per metabolizzarne storia, filosofia e gusto. Ognuno, poi – Mauro Lotti docet(1) – ha la sua ricetta, con le sue ‘fisime’. Tuttavia, da qualche parte si deve pur cominciare. Si può raccontare, per esempio, che:

1)il martini cocktail contiene del buon gin e un po’ di vermouth dry, eventualmente oliva o limone a guarnizione;

2)che inizialmente i due alcolici fluttuavano nel mixing glass, sotto i colpi del bar spoon, in parti uguali;

3)che, anzi, in origine la scelta ricomprendeva un gin e un vermouth più morbidi;

4)che col tempo la ricetta si è evoluta, lasciando praterie al gin del tipo più secco, il London Dry.

Tutto corretto, ma spiegherebbe ancora il successo planetario della bevanda? No. All’estero è solo un “martini”, o meglio: “dry martini”. L’espressione al contrario si trova sulle etichette del noto vermouth di Pessione (To) che, prima dell’attuale riscoperta dei vermouth, costituiva uno dei più utilizzati ‘agenti aromatizzanti’, la sopra citata carezza del martini. Oggi il ventaglio di scelta, tra vermouth ma anche gin, si è allargato, forse troppo per un classico martiniano, unico caso al mondo di tipologia di bevitore longevo. Anch’egli, però, in passato ha conosciuto la decadenza e oggi, dopo la rinascita del suo cocktail, si gode il suo primato, anche se sembra – di nuovo – accusare un cambio di passo generazionale, seppur minimo.

E sottolineiamo minimo, perché possiamo presumere che, così come scricchiola un grande impero della storia che appaia indissolubile, anche per il martiniano arriva prima o poi il momento di cedere il potere. Tuttavia, il martini che ordina è come certe istituzioni secolari, sopravvive ai cambiamenti, sapendo modificarsi senza però darlo a vedere troppo. E il martiniano in questo modo, è felice, e sopravvive. Dunque, il modo in cui sopravvive senza darlo a vedere troppo, è la principale regola martiniana, che solo persone che bevono martini e non per moda, sono in grado di cogliere. Ne vedremo altre più avanti (le citeremo come ‘regole di M’).

Ad una prima conclusione, a parte i due decenni tra il 1970-1980, quelli sì di depressione, ma di tutto il settore, il nostro protagonista è sempre stato vivo e vegeto, sopravvivendo alle mode del momento. In parti uguali, poi più col gin, poi anche con vodka al suo posto, quindi di nuovo gin, a tratti in parti uguali come un tempo, il martini c’è sempre stato, mentre tutto intorno il panorama cambiava. Il vero punto fermo del bar. A un cambio di regole, di gusti, di stile, il nome “martini” lo si può leggere nei ricettari sin da quando è comparso la prima volta.

IL DRY MARTINI DEL MARTINIANO: CI SONO REGOLE NON SCRITTE

Amato dal jet set internazionale da sempre, il nostro cocktail è associato a questo o quel personaggio noto, reale o di fantasia. Circa l’elenco in questione, preferiamo lasciare al lettore la ricerca. Citiamo, semmai, quel che spesso non si sente dire. Al Duke’s di Londra Alessandro Palazzi non lo mescola per niente: gin ghiacciato, direttamente dal congelatore alla coppa, anch’essa congelata. Minime quantità (gocce) di vermouth per gradire. Si perderà, forse, la poesia della sua preparazione, che altro non è se non un sipario teatrale recitato a memoria, di gesti da compiere per prepararlo e parole da sussurrare, della domanda e della risposta: “Che gin preferisce?”, “Quale vermouth?”, Limone, oliva?”, “Grazie, butti via la frutta”. Fatto ‘alla Palazzi’, perde magari parte di queste battute, in pratica è un martini senza liturgia o con una liturgia diversa, una messa breve officiata dal barman-sacerdote per il bevitore-fedele.

Tuttavia, se anche Salvatore “The Maestro” Calabrese(2), da Londra via Maiori, rivendica la paternità del ‘Direct Martini’, contro un altro monumento come Colin Field del Ritz di Parigi, un qualche motivo di apprezzamento per quel ‘rito abbreviato’ ci sarà. A Venezia il bar del Lido, regno di Tony Micelotta – anch’egli presunto inventore del martini quasi nudo e crudo – adotta lo stesso pragmatismo. In generale gli hotel bar della Laguna sono soliti mettere nel pozzetto qualche bottiglia di gin. Le differenze sono minime: qualcuno lo ‘stirra’ pochi secondi per ‘riscaldarlo’, paradossalmente, cioè per stemperarlo con l’acqua che si scioglie dai cubetti di ghiaccio, più caldi del liquido tolto dal congelatore, altri lo versano direttamente in coppetta, spruzzandoci sopra del vermouth, offrendovi l’esperienza di un martini senza diluizione, freddo e forte come una lama di rasoio.

Seguono la scia i due ’Harry’s Bar, quello veneto, frequentato un tempo dal buon Ernest Hemingway – padre putativo di tanti martiniani – così come l’omonimo bar fiorentino. In quest’ultimo nell’utilizzo di questa tecnica spicciola, vi potrebbero proporre di rompere con la tradizionale coppetta a ‘Y’, per un martini della casa. Vi ritroverete così tra le mani un artefatto in vetro spesso, col logo dell’Harry’s, che rammenta più un bicchiere da shot che un’elegante coppetta.

Non disprezzate a priori. Quei bicchieri sono, forse, il frutto di un lusso del passato con meno fronzoli e tanta, ma tanta clientela in sala da servire e che ambiva al martini della casa. E poi le tradizioni, come ogni martiniano riconosce, hanno la loro importanza. Non è l’eleganza del bar a fare il nostro cocktail, quanto la capacità del barman di capire che ha di fronte a sé un autentico martiniano. In quel caso potrebbe anche scattare una scintilla, fatta d’intese a ogni occhiata, di un linguaggio segreto tra cliente e bartender che renderà entrambi degli esseri umani felici e soddisfatti.

Non si nega tuttavia che anche l’occhio voglia la sua parte. Ci sono luoghi in Italia dove è possibile unire all’esperienza di un dry martini super cool anche quella della vista di ciò che vi sta accadendo davanti. Al bar Dry Martini del Majestic Palace di Sorrento, il sacerdote che officia il rito si chiama Lucio d’Orsi. 

Segue un rituale sempre identico che ha quasi del mistico. Ogni oggetto (bottiglie, tovagliolini, spoon, ecc.) è posizionato in un punto preciso. Il bancone è allestito come un altare e la coppetta vi giungerà immacolata, sotto al naso, su un vassoio d’argento, senza essere stata mai trasportata da mani  umane per non farla ‘scaldare’ troppo. Mistica. Il resto è una poetica della bellezza: da un lato c’è lo sfondo del golfo e dall’altro lo speciale contatore del martini che scala in avanti, solo ad ogni dry martini ordinato. È davvero una sciccheria (non dimenticatevi di chiedere il certificato a vostro nome che attesta il numero esatto del dry martini bevuto).

Ci sono, poi, dei luoghi che pur non rappresentando una grande storia, sono delle ‘chicche’ che non indichiamo perché devono rimanere voci scambiate tra martiniani in altre circostanze, roba che altri bevitori, esperti o anche semplici curiosi, non capirebbero (è una regola di M). Solo a titolo di esempio, senza indirizzo e nome, a Bologna c’è una caffetteria, apparentemente banale nel suo essere un piccolo bar con gioco del Lotto, che per soli 6 euro vi presenta in un batter d’occhio un dry martini a -20°C, direttamente dal pozzetto. Il gin è un classico London Dry di categoria premium. Segue ciotola di olive verdi e succose.

Un pub fiorentino, con una tecnica simile, vi serve il drink accompagnato da un trittico di olive: verdi in salamoia, condite con spezie e nere; in più, come asso nella manica, porta delle cipolline (ci scappasse un Gibson), anche lì per un prezzo più che accessibile, 7 euro. Il prezzo del martini è una storia a parte, davvero curiosa. C’è una sorta di rovescio della medaglia: il martini, per quanto sembri elitario e adatto a un rango di bevitori snob, riesce ad essere paradossalmente il più democratico dei cocktail. Basta un buon gin, del vermouth e una temperatura di servizio molto bassa, con scarsa o nulla diluizione. Il punto è che bastasse solo quello!…

A proposito di bevitori, esiste un gruppo di affettuosi martiniani riuniti sotto il nome di Avemartini: professionisti nel lavoro e fedeli bevitori accomunati dal sacro vincolo del gin e del vermouth che periodicamente si ritrovano in serate ‘a tema’. Siamo capitati in uno dei loro covi, a Milano. Ricordiamo ancora la difficoltà di avvicinare il bancone. Quella sera siamo rimasti in sosta in seconda fila, prima di poter chiedere un dry martini, mentre ovunque, sul banco e sui tavoli, era un tripudio di coppette brinate. E così è stato per il secondo giro, di nuovo fermi, in sosta, come le auto di formula 1 ai box per ricaricarsi. Tutto sommato non era sgradevole: l’attesa di ripartire è funzionale al desiderio. 

E’ il caso di sottolineare la seconda fila per un martini, che è roba che forse ha vissuto solo gente come Hemingway, per dire. Una volta, un altro decano dei bartender italiani, ormai ultra 90enne, ci ha raccontato che ai suoi tempi (che poi sono stati in parte anche quelli di Hemingway) la fila era doppia, tripla, quadrupla. E il martini arrivava dalla prima all’ultima, passando di mano in mano fino alla fine della stanza. Altri tempi.

A Milano c’è un locale tra quelli migliori del globo, dove c’è sempre un bel codazzo di gente che attende, ordinata, per entrare. E’ il Nothingam Forest di Dario Comini (uomo navigato, pensate che lo volle il Cavaliere ai bei tempi della Milano da bere). Il suo bar è specializzato in miscelazione molecolare, ha un menu a parte con oltre 100 martini, alcuni dei quali davvero particolari, ma se chiedete il classico, Dario ve lo prepara in meno di un minuto (cronometratelo pure), ghiacciato come il freezer vuole. Il palato è sollevato, il cervello felice e il cuore ringrazia, anche se non vi aspettereste una bevuta da martiniani in un posto ‘sperimentale’, ma il bello di bere martini in Italia è anche questo. Ogni martiniano tende a rintracciarsi un proprio ‘nido’ (altra legge del M).

IL MARTINIANO? UN BEVITORE DEMOCRATICO

IL BARTENDER? UN  MISCELATORE ELEGANTE E DISCRETO

Il lungo excursus era opportuno per comprendere che il martini ha travalicato i confini di un semplice cocktail: è una filosofia del gusto, che contiene in sé estetica ed etica del bere. Una frase che, ad una prima impressione, potrebbe sembrare il frutto di una mente squilibrata, sotto l’effetto del gin ‘vermutizzato’, ma facendo un po’ di pratica sul campo, chiunque converrebbe sul fatto che un vero martiniano sia innanzitutto un bevitore con un circostanziato approccio alla vita. Non pretende necessariamente il cocktail ghiacciato in un 5 stelle lusso. Non ha che poche esigenze: spazi, situazioni e compagnia. Si riconosce infatti:

1)negli spazi e nelle situazioni in cui può ritrovare giovialità, cortesia, buon eloquio e, se ne ha voglia, darne prova egli stesso;

2) nella compagnia di altri simili, ancorché sconosciuti (la classica serata martini, quasi sempre inaspettata).

Questo è quel che abbiamo intuito vivendo sul campo l’esperienza insieme a gruppi di martiniani. Detto in altri termini, pagano volentieri 15-20 euro una bevuta in un prestigioso bar di hotel, se meritata (drink almeno discreto, buone chiacchere, accoglienza), ma pagano mal volentieri qualche spicciolo in meno per lo stesso bicchiere freddo, freddissimo, in un altro elegante bancone o in un quartiere popolare se non c’è merito. Perché non ne fanno una questione di differenza di portafogli e di ‘frozennerdismo’ (gara a chi lo fa più freddo).

L’accoglienza deve essere professionale ma anche familiare. In pochi gesti vogliono sentirsi a casa. Per questo preferiscono il barman che abbia alcune caratteristiche, la cui abilità è quella di non essere abile in una cosa specifica. Deve sapere un po’ di tutto: di tradimenti, segreti, ma all’occorrenza deve anche snocciolare sagaci battute sui fatti della vita.

Rubando una frase a un grande personaggio della cultura, come Ennio Rossignoli, il martiniano apprezzerà sicuramente: “il miscelatore elegante, l’interprete confidenziale e discreto di un’etica di servizio in cui resiste ciò che rimane di una civiltà sempre più dimenticata. Un uomo impeccabile nel tratto, una serietà che non intimidisce, ma costringe alla sobrietà del gesto e della parola”.  In questo modo, mentre fuori il tempo passa, al bancone si ferma e regala quiete in un attimo sospeso. Si tratta di un’armonia di cui i martiniani vogliono sentirsi parte, ma senza dichiararlo. Non renderanno mai esplicito questo punto. Lasciano sempre che sia la situazione a trasformarsi naturalmente – ed è certo che un bravo barman in questo potrebbe tirar le fila di nascosto -. Troppo complicato? Dipende, la questione è una miscela tra costanti e variabili.

LE COSTANTI E LE VARIABILI

Semplificando con un’equazione, la coppa deve rispettare il luogo, il luogo deve determinare il prezzo e il prezzo deve rispettare il luogo e la qualità. Poste queste minime variabili interlacciate tra loro, esiste un minimo comune multiplo, che deve essere sempre presente, costituito da un mix tra modi di fare, servizio e qualità (in capo al bartender) e libertà di azione e possibilità di costruire atmosfera (anche in capo al bevitore). Ecco perché il martiniano può fare la sua esperienza democratica in un baretto di periferia come all’interno di un best50 bar di Londra.

Vale la regola che un amico bevitore ci descrisse una volta: quartiere pop, martini pop. Ergo, quartiere top, martini top. Se cade l’uguaglianza, non c’è esperienza. Non c’è martini. Spesso, purtroppo, solo perché il cocktail porta un nome blasonato, il livello del prezzo sale a prescindere da tutte le variabili e costanti descritte prima. Diciamocelo pure: quanti martini pagati qualche euro in più, solo perché “martini”, non valevano l’esperienza? Questo ultimi discorsi sono forse troppo nerd, argomento di discussine per una tavolata di martiniani, ma mai, o quasi mai, attenzione, affrontarli con un bartender. Nel primo caso si tratterebbe di parole pronunciate per il gusto del divertimento, magari anche intelligenti, ma leggere. Nel secondo si andrebbe troppo nel tecnico. Ecco un’altra regola, fondamentale, appresa sul campo: il nerdismo da bar è quanto di più lontano ci sia dal martiniano.

Da cui discende quest’altra: evita di parlare di martini con un barman, se tu non lo sei. Perché, volente o nolente, il barista rischia di trascinarvi in quei discorsi tecnici che vi interessano il giusto, tanto il giudizio sul suo operato lo avete già formulato ancor prima del primo sorso. E poi, quasi peggio di un martini fatto male, c’è la chiacchiera lunga che fa scaldare il drink. Vista, dunque, dalla parte dei giovani e ancora troppo ruvidi bartender che stanno leggendo, non addentratevi in questo tipo di discussioni col cliente, se non è lui a volerlo, certo. Sollezzatelo, semmai, con un altro martini che abbia la pretesa di essere migliore del precedente. 

Per concludere il punto, questi martiniani sono una razza difficile, com’è complessa la perfetta riuscita del loro cocktail; ma sono altrettanto semplici, com’è semplice la composizione dei suoi elementi. 

PERCHÉ IL SUCCESSO DEL MARTINI COCKTAIL?

Giusto un po’ di storia seria (con divisione arbitraria in fasi per meglio comprendere)

Fase 1 – La Gilded Age e la novità del cocktail

Il successo globale? Il frutto di una miscela di ingredienti, come sempre accade. Vale anche qui la regola aurea del posto giusto, nel momento giusto. Il martini cocktail nasce nell’era della Gilded Age, che si intensifica a partire dalla seconda metà dell’800, in Usa e arriva agli anni ’10 del Novecento. Un’epoca di finta doratura, di grandi ricchezze, salari elevati, ma con un rovescio della medaglia: alto tasso di corruzione e frodi finanziarie. Oggi diremmo che si trattò di una grande bolla che intorpidiva l’opinione pubblica che Thomas Nast provò a rinsavire, inventandosi il fumetto satirico e irriverente. Compito arduo. La Guerra Civile era finita da un decennio, il soldo cominciava a circolare di nuovo e con esso i buoni propositi e le speranze rivolte al futuro.

Ecco dove s’innesta il martini, quando compare nei manuali dei bartender. Se incomincia a comparire in quelle pubblicazioni nell’ultimo scorcio del XIX secolo, evidentemente doveva funzionare, doveva essere richiesto. Più in generale, in quel periodo è il cocktail a essere visto come un’invenzione recente e figlio di una moda che iniziava a radicarsi.

A dare lustro al cocktail e a farlo sedimentare, ci penserà l’arrivo dei vermouth, il dolce italiano e il secco francese. Una vera rivoluzione. Il vermouth è subito inserito proprio in quelle bevande più recenti, definite come cocktail. Soprattutto in due delle sue versioni: il gin e il whisky cocktail. Dal primo deriverà la linea martini e affini (come il Turf), dal secondo la linea Manhattan e simili, che seguirà uno sviluppo basato sulla dolcezza, a differenza dell’altra che si evolverà presto verso la secchezza. I quotidiani, anche importanti, che tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 citano “martinis” e “Manhattan” come cocktail tra i più modaioli, sono un altro segnale del fatto che l’operazione di sedimentazione poteva ormai ritenersi conclusa.

Il nostro martini è presente anche con altri nomi (Turf, Tuxedo, Bradford à la Martini, Ford, Marguerite, ecc.). Altro segnale del gradimento della combinazione di ingredienti. Perché, però, tra tutti il vero Highlander è rimasto il dry martini? A questo punto potremmo avanzare una ipotesi verosimile: restiamo a New York, città ricca dove la cultura del cocktail ha contagiato i facoltosi gentlemen di fine ‘800.

Se aveste messo piede in città, per la prima volta, in quegli anni, avreste notato una delle principali caratteristiche dei newyorkesi, che li rendeva simili a un fiume di diamanti riversato lungo le vie. Belli da vedere e impossibili da intercettare. Avreste provato l’umiliazione di essere ignorati. “Erano degli idoli camminanti di pietra e smalto, adoratori di loro stessi, e, seppur incuranti, avidi di suscitare adorazione nei loro comparti feticci”, così li descrive la penna arguta di O. Henry nel racconto Come diventare newyorkesi, ambientato a cavallo del XIX secolo. Il suo protagonista, spaesato all’arrivo a Manhattan, preferisce “la malinconia gentile dei baristi dietro ai banconi dei bar di provincia, dove se ordini una bevanda il pranzo è servito”.

Dunque, New York è una grande città, frenetica, che in superficie mostra tutti i suoi pregi che sono anche difetti: lavoro, affari, distacco sociale. La competizione è il metro per misurare il successo. E’ probabile che la stessa si percepisca nel mondo dei cocktail. C’è gente ricca che frequenta club esclusivi, dotati di bar, dove è plausibile che il barkeeper crei appositamente una versione del martini per il cliente importante (magari fu così per il signor Bradford). Magari, lo stesso drink è richiesto o ricopiato in altri club, meglio ancora: copiato e rinominato: i club sono spesso competitivi e il terreno di lotta può prevedere anche la disputa nel dare i natali a un cocktail, purché lo si sappia in giro.

A questo aggiungete, come nota lo storico del bere, David Woondrich, che in quel periodo martini e Manhattan potevano anche essere confusi, nel colore e un po’ anche nel sapore.

Martini cocktail il re dei cocktail

Il gin iniziale è l’olandese, dal tipico sapore di malto che lo avvicina al whiskey e l’abbondante dose di vermouth dolce delle prime ricette avvolge le sue parti più spigolose. In via del tutto ipotetica, si poteva verificare nella realtà questo: che un gentleman bevesse il Manhattan in un bar, anche se lo considerava un martini o viceversa, e che spostandosi altrove continuasse a chiamarlo in quel modo, a suo rischio e pericolo di berlo col whiskey, in tal caso avrebbe specificato meglio, che lo voleva col gin, amplificando la confusione del bartender. Oppure erano gli stessi baristi ad alimentare confusione, preparando un Manhattan, intendendolo martini. Chissà.

Oppure ancora, preparavano il Manhattan col gin, detto Martinez. Quest’ultimo in effetti, quando compare nei primi ricettari, è definito un Manhattan col gin. Dunque, per alcuni poteva semplicemente essere un Manhattan e basta. Ecco, forse così potevano non confondersi o peggiorare la situazione, tanto i bevitori che i miscelatori. Sta di fatto che a un certo punto della storia la versione, anzi le versioni con gin sempre più secco e vermouth dry prevalgono. E prevale il nome: dry martini. Anche il brand italiano omonimo avrà avuto un peso per diffondere il cocktail “dry martini”. Le pagine di pubblicità per vendere il vermouth “Martini Dry” come il perfetto ingrediente per il cocktail “Dry Martini” si sprecavano. Soprattutto: funzionarono. Anche perché si erano venute a creare le condizioni favorevoli.

In quegli anni in cui circola un maggior flusso di denaro, le città di affari (New York, San Francisco, New Orleans) si dotano di bar e baristi all’altezza di una clientela sempre più esigente e cosmopolita. La miscelazione fa un passo in avanti e l’America scopre il cocktail non più inteso come “apri occhi”, quel drink da bere al mattino per riprendersi dalla sbronza della notte precedente, ma impara a condividerlo come momento ludico notturno. Tra gli uomini di affari che frequentano i grandi hotel e i loro bar è in voga l’abitudine di bere il cocktail in sostituzione del tradizionale the delle 5. Non è un caso che i primi esemplari di shaker assomiglino a delle teiere.

In quel periodo il martini seduce, piace, s’insinua nella buona società. Il The Crescent, house organ del modaiolo Crescent Athletic Club di Brooklyn, nel 1896 (è trascorso meno di un decennio dalla comparsa del martini in un ricettario da bar) riporta la cronaca di un party durante cui uno degli invitati “spinse la sedia indietro e…mentre sorseggiava il

martini e inalava il suo bouquet seducente…”, faceva volare in piscina il malcapitato. Questo che per molti può sembrare un semplice episodio di cronaca, ci fornisce invece utili informazioni: intanto, comprendiamo che il martini era apprezzato nei party importanti e, soprattutto, che era preparato in parti uguali o così possiamo presumere, o non si sarebbe potuto inalare il suo bouquet, come spiega il giornalista. In un martini molto secco, infatti, questo sarebbe difficile. Il fifty-fifty con l’alta percentuale di vermouth, regalava profumo e gusto.

C’è, poi, un altro aspetto che spesso si dimentica, ma che ha contribuito al successo del martini, sempre nel periodo considerato: i battelli a vapore. Non erano solo delle zattere per navigare i fiumi, ma veri bar galleggianti. Ogni battello era come se fosse costruito attorno al bar che era situato al centro. Durante la navigazione, non restava che ritrovarsi al bancone per bere.

Nel racconto del solito O. Henry, The Gentle Grafter (1908), i protagonisti preparano un martini sul battello, mentre solca le acque del Mississippi. Ancora, nel racconto di Jack London, Burning Daylight (1910) – anche London era un noto martiniano, a quanto si dice – uno dei protagonisti, un ricco magnate, beve un martini per calmare i nervi. Sono pochi esempi che bastano per dare l’idea di come, tra la fine dell’800 e il secolo successivo, il nostro cocktail muove i primi passi conquistando fette di gradimento sempre più ampie, spazi negli articoli di quotidiani, citazioni letterarie, alleggerendo gli animi in un periodo di lussuria che celava i problemi che sarebbero scoppiati più avanti nel ‘900. E anche lì, il nostro martini riesce a mantenersi vivo e a crescere in fama.

Fase 2 – Ricchezza e povertà. Bere nei grandi hotel e bere nascostamente: i gintellectuals

Mentre l’America del Proibizionismo serrava con leggi severe le porte dei bar, i soliti rampolli di cui prima, col loro seguito di intellettuali, non perdevano occasione per vivere rocambolesche avventure alcoliche. Erano soliti scendere nei bassifondi metropolitani, assaggiando nei locali segreti, gli speakeasies, il gin della malavita, che come tutti gli alcolici era proibito, ma non se fatto (anche male) da mafia & co.

Per quei bevitori curiosi, un giornalista conia il termine gustoso di “gintellectuals” e così venivano sempre citati negli articoli di cronaca e costume. Ça va sans dire che il ‘gin di Al Capone’ lo preferivano dentro a un martini. Fu questo, probabilmente, a donare al martini cocktail un’aura di maggior fascino. Durante gli anni ’20 il martini si arricchisce di un lato oscuro, attraente, viene amato da uomini e anche da donne, delle quali si hanno le prime prove generali di conquista di libertà e spazio sociale, come clienti indipendenti. 

Il Proibizionismo, se da un lato tronca la qualità raggiunta dal mestiere del barista americano, dall’altro lato lo porta fuori dai suoi confini. Il bere miscelato dilaga maggiormente anche in Europa. Cocktail storici, per esempio, prendono il via proprio a Parigi e Londra. Inutile dire che per gli americani che a vario titolo soggiornavano nelle capitali europee, il martini era una scelta prediletta. A dire il vero, il martini era stato già seminato durante la prima guerra mondiale, con la presenza dei soldati americani che si erano trasformati in diffusori inconsapevoli di ricette e magari tecniche (vai a capire quanto corrette) dell’american bar, che in realtà aveva le sue regole, i suoi canoni di miscelazione. Questo li faceva sentire più a casa. Racconta John Thomas che a Parigi (1926): “Hanno seminato il duro martini a destra e a manca della Senna, come il fruttuoso Bronx, il robusto Manhattan, l’aspro Highball”.

Abbandoniamo il breve periodo proibizionista della storia americana e allarghiamo il quadro per avere una visione d’insieme, tornando a quel più lungo lasso di tempo rappresentato dalla Gilded Age. Quegli anni non si limitano a essere ricchi e corrotti, ma passano alla storia – anche grazie al cinema di Hollywood – per le note jazzate che rappresentavano la nuova modernità, quella stessa modernità incarnata dai grattacieli nascenti, simbolo di nuovi imperi all’orizzonte. Non sarà un caso se le varie leggende sulla nascita del martini lo collocano spesso in un contesto legato alla ricchezza? In esse sono spesso citati grandi hotel, uomini di affari, pepite d’oro.

Aggiungiamo un’osservazione che abbiamo letto da qualche parte e benché non ricordiamo dove, la troviamo curiosa e meritevole di riflessione: se rovesciate la cupola di un grattacielo di 180° cosa otterrete? La risposta è semplice: una coppa martini, magari simile a quelle effettivamente usate in quel periodo. Il grattacielo, con la sua struttura semplice e lineare, con i contorni netti, la forma definita, stava caratterizzando il nuovo aspetto della città. La sua architettura è in netto contrasto con le forme pompose, dello stile Vittoriano precedente.

Il martini sintetizza lo stesso nel bicchiere: è quel desiderio di rompere col passato, di guardare in avanti a un futuro ricco – il grattacielo è il simbolo della nuova ricchezza – ed è un drink così semplice da fare e da chiedere, rispetto a molti altri, precedenti (dell’era Jerry Thomas). Oltretutto è chiaro, vagamente giallognolo – un rimando piacevole allo champagne che rimaneva sempre un must, ma meno sofisticato, senza bollicine – migliore di un duro gin cocktail del passato. La coppetta piccola che poi lo caratterizzerà, sarebbe stata ridisegnata sulla scia delle nuove arti, presentata all’Esposizione universale di Parigi nel 1925. Piccola, perché anche nel contenuto è in grado di contrastare i canoni degli anni precedenti. Ingollare martini, quindi, diventa di moda, rappresenta il modo di bere di una società che vuole emanciparsi dalla tradizione.

Il contorno sociale in cui ciò avviene è il miglior modo per ‘aromatizzarlo’: le note dirompenti del jazz, l’art neauvau, le linee semplici, quasi banali, dell’architettura e della moda, del design. L’imperativo è: ricercare la semplicità e la ricchezza allo stesso tempo. La sintesi di questi due aspetti fa nascere icone, oggetti facili da comprendere, ma carichi di significato: un portasigarette, come la cupola di un grattacielo, la coppa di un martini. In questa fase il martini è anche e soprattutto ‘donna’, glamour, moderno, consumato in spazi sociali frequentati da entrambi i sessi. Piace pensare che abbia contribuito alla manifestazione del libero pensiero per le donne (celebre, per i più curiosi, la frase di Dorothy Parker). Si trasforma in avanguardista, irruento e illegale. 

Finito il Proibizionismo, Esquire pubblica nel 1934 la classifica dei migliori e peggiori cocktail del decennio. Il martini è tra i primi. Nei secondi troviamo “Orange Blossom, Bronx, Clover Club…”. Questo la dice lunga su come sarebbero andate le cose in seguito.

Fase 3. L’eco mediatica: il martini del popolo

Quando il Grande Divieto finisce, nel 1933, il presidente della Nazione, Franklin Delano Roosevelt, inaugura il rito del martini alla Casa Bianca. Lo preparava – male, a sentire un membro del suo entourage – in uno shaker d’argento ancora oggi visibile (Franklin D. Roosevelt Library; National Archives Identifier 16917407).

Sdoganato niente meno che da FDR, il martini sarebbe divenuto di lì in pochi anni la norma, che può e deve essere seguita anche dalla classe media. Diviene un drink popolare, pronto per bevute di massa, ma prima gli serve un ultimo passaggio, un bagno di folla. E’ il momento in cui calpesta le passerelle di vip. Si accredita presso politici, attori, soubrette, quindi finisce per entrare nelle case della gente comune che lo beve nel proprio salotto come al bar. Supportano il cambio d’immagine le pubblicità di brand di vermouth e di gin che fanno a gara per vendere il proprio prodotto come quello perfetto per un martini cocktail. Le réclame sui giornali continuarono almeno per 20 anni dopo il ‘33. Il set per fare il martini a casa diventa il regalo di nozze preferito dagli americani.

Divenuto oggetto di massa, accade, a cavallo della seconda guerra mondiale, che il martini intraprenda il viaggio verso una sempre maggior secchezza. Il nostro Hemingway – sempre che sia vera la storiella – è a Cuba, quando viene folgorato da una intuizione geniale, per prodursi del ghiaccio in un paese dove averlo poteva costituire un serio problema. L’idea consisteva nel prepararsi il ghiaccio riempiendo d’acqua i contenitori di metallo a forma di tubo per le palline da tennis. Si racconta che li utilizzasse per preparare i suoi martini gelati, magari con una cipollina spagnola e un po’ di vermouth. Lo scrittore americano iniziava –senza saperlo – ad alimentare un mito. A dirla tutta, Hemingway meriterebbe un approfondimento a parte. E’ stato talmente incisivo nel modo di bere il martini, secco, da aver determinato la nascita di una nota espressione che suona più o meno così: “vorrei un martini alla Hemingway”, cioè very-very dry.

La seconda guerra, comunque, frena gli entusiasmi (la testa è altrove, le fabbriche di alcolici producono ‘benzina’ per i macchinari bellici), ma il martini non scompare. Semmai, muta colore. I processi di filtrazione e stabilizzazione cambiano e il vermouth diviene pressoché trasparente. Il dry vermouth è sempre più la scelta frequente in luogo del cugino dolce e sempre in dosi minori. La questione dell’evoluzione del martini però è un argomento complesso, difficile da dirimere e quindi è preferibile lasciarla ad approfondimenti a parte.

Basti dire questo: dal post proibizionismo, fino agli anni ’50 il martini cocktail si carica di una forza nuova, divenendo un’icona del bere. E la sua secchezza, intesa come tendenza a berlo dry, rientra, anzi alimenta l’iconografia. Nel senso che giocare con il vermouth (mai si mette in discussione il gin) significa avvicinarsi al mito, poterlo modellare. Ognuno ha piacere di partecipare alla sua celebrazione, ordinandolo, secco, secchissimo, così diverso, unico nel suo genere. 

Fase 4. Un cocktail aziendalista e per soli uomini

Dopo la guerra, dopo la sua ripresa negli anni ’50 e la fase di ritorno alla normalità e di rinascita, soprattutto economica, il martini viene ‘adottato’ dalle grandi compagnie americane. Alle convention delle multinazionali, i dipendenti s’irrorano la gola di martini, che rappresenta uno status symbol a stelle e strisce e quanto di più distante ci sia dall’Europa, ad eccezione degli ingredienti, ma questo non influisce. Lo percepiscono come una grande invenzione americana. Il Martini è, orgogliosamente, Made in Usa. E con la sua secchezza, sempre maggiore, quindi con la sua forza, simboleggia lo strapotere (economico) degli Usa sul Mondo. Si è trasformato in una bevuta da uomini. A partire dagli anni 50, l’icona-martini acquista nuove caratteristiche, perde quell’aspetto glamour e femminile, e sotto la sua superficie lucente si nascondono significati geopolitici. Berlo in 3 sorsi, così secco, è il nuovo feticismo americano.

È la morte del cocktail martini, ma non quella del martini, che invece si consacra ulteriormente. Finisce per rappresentare un cocktail, su cui il bartender può dire la sua e diviene un oggetto carico di ben altri significati psicologici e sociali. Un’arma, spesso utilizzata da presidenti e capi di stato americani per impressionare gli interlocutori in incontri ufficiali. E’ rimasta celebre la frase del politico russo Nikita Krushev in cui definisce il martini come “l’arma più micidiale degli Stati Uniti”.

Ricapitoliamo. Fino ai ruggenti anni ‘20 il martini si è rodato, acquisendo alcune caratteristiche che lo hanno reso appetibile, sempre più affascinante per i palati maschili e femminili. Con FDR si è consacrato come rito, icona sacra per tutta la Nazione e si è diffuso orbi terraque con la sua preghiera laica nella preparazione. 

Poi, quando da icona diventa sempre più very-very dry, la secchezza è il nuovo feticismo che raccoglie accoliti in un numero sempre maggiore. Il bartender è quasi esautorato del suo ruolo. Nascono così certi aspetti che diventano canonici, come il fatto di dire che ogni martiniano ha il suo modo di bere. Un tempo non sarebbe accaduto, ma non si può contrastare un’icona sacra e il suo adoratore, tanto più se quella si è tramutata in feticcio. La si accetta così o non la si condivide. La ritualità del martini, nel bene o nel male, si arricchisce. Ci sono tanti martini quanti martiniani. Ci sono le loro richieste che pretendono di essere rispettate e le aspettative che vogliono essere soddisfatte. I martiniani sono gentili, eleganti, ma sotto la giacca, giudici impietosi.

Scriveva il New York Times Magazine già nel 1952 che “ciò che sta togliendo tempo produttivo in ufficio e distruggendo il carattere dei baristi è ciò che si chiama very dry martini”. Una follia di massa. Gli americani incominciano una corsa verse la secchezza che non ha precedenti. Sempre nel 1953, alcuni martiniani appartenenti alla Lower Montgomery Street Olive or Onion Society stabiliscono, grazie a un panel di esperti assaggiatori, che il dry martini perfetto è costituito da 3 parti di gin e 1 di vermouth dry.

Nel 1963 il Nick’s Restaurant di Boston espone un cartello in cui si dice che il suo barista è riuscito a isolare una molecola di vermut.

Nel 1966 si arriva a standardizzarne la ricetta, attraverso l’organismo che si occupa di registrare gli standard, l’American Standards Association (ASA).(3)

Il fatto che ci sia una ricetta standard ufficiale, non ha particolare rilievo per il bar, ma rafforza il potere mediatico che ormai ha assunto la bevanda, che diviene un metro di giudizio, una pietra di paragone per tutto. Nessuno può accettare un martini mediocre. Il martini è, oppure non è. Viene citato in numerose gag, come quella di un tizio che, salito sul treno, si lamenta del servizio: “ma che razza di linea ferroviaria è? Infernale! Ti pare un dry martini?”, come se fare il dry martini sia la regola per tutti. Tutti, infatti, sono tenuti a conoscere la procedura standard per un dry martini che, ripetiamo, lo vuole molto forte e secco.

Tutti, significa che il bar e il bartender hanno perso pezzi per strada. Ora anche i personaggi di fantasia si permettono il lusso di dettare le ricette e renderle popolari. James Bond inserisce la vodka, lo shakera, lo carica di altri significati, allontanandolo dal mito originario. Il martini-feticcio è anti femminile, aziendale, corporativo. Lo apprezzano i colletti bianchi, che come Leonardo Di Caprio in The Wolf of Wall Street lo bevono per pranzo, anzi, al posto del pranzo. In tre sorsi e pasteggiano con le tre olive al suo interno (merita un capitolo a parte il Three Martini Lunch).

E qui siamo ormai negli anni ‘70, quando i giovani non bevono martini, che non è più il dirompente spirito che contrastava il vecchiume passato, ma è esso stesso il baluardo del vecchio che non vuole abdicare. E’ troppo borghese per i ragazzi della rivoluzione più propensi a seguire sostanze psichedeliche. Del resto sono anni bui per il bar, in generale. Il martini non fa più a braccetto con grattacieli e modernità. Subisce la decadenza, ma ritorna negli anni 90, quando non a caso si affacciano nuovi ricchi sulla scena. Che chiedono il loro drink iconico. E allora eccolo là, pronto a scendere di nuovo sul tappeto rosso, come se non avesse preso una ruga. Ritorna in coppa grande, spavalderia da nuovi paperoni e vive il periodo vodka, ovviamente.

Fase attuale. In fieri

E oggi? Oggi il gin è tornato di moda, anche nel martini, che con la comparsa sulla scena mondiale dei craft cocktail ha ripreso le forme e il gusto, hipster, più vicini al passato. Coppa piccola, ci si sposta verso una maggiore morbidezza, ma non è la regola. Chiaramente il very-very dry resiste piuttosto bene. Ci sono ancora i suoi adepti, ma non amano i feticci, per fortuna. Qualsivoglia traccia di divismo o fideismo sembrano scomparsi, nessuno crede più nella messa laica del martini, nella liturgia della sua parola. Se ne fa volentieri a meno. Al limite i più nostalgici osservano, segretamente si incantano mentre il bartender prepara loro un martini. E forse c’è un pizzico di nostalgia in tutto questo.

Del resto il martini subisce l’influsso dei nostri giorni. Viviamo nell’epoca in cui ogni istituzione ha perso il significato originario. Chiesa, Stato, Famiglia li abbiamo abbattuti. E’ mutato il rispetto che un tempo era loro tributato. E’ cambiato il modo di raccontarli. Anche il bere si piega ai nuovi ecologismi e segue nuove tendenze, dal gusto all’abbigliamento. Barbe e bretelle come una volta, ricette in linea con le origini. Si arriva a una martini-ratio anche di 1:1.

Il martiniano in tutto ciò rimane neutrale. Non si adegua alla tendenza, non manifesta contro. Cerca solo di salvaguardare le poche pretese, se non l’unica di bere un dry martini, freddo, accompagnato, come sempre, da buone maniere. Beve il suo martini per necessità, per staccare la spina dallo stress lavorativo e perché stenta a riconoscersi nel presente troppo rapido nei cambiamenti. Apprezza, forse, questo ritorno alle origini, ma è consapevole che sia filtrato dal binocolo della generazione X e dal marketing. Ecco perché, passato per passato, preferisce la sua certezza, un tempo arma micidiale, oggi unica medicina contro il logorio della vita moderna. E’ rimasto all’immagine di quel bevitore-tipo della Gilded Age, descritto così bene da Charles Maloney nel 1905: “vuole essere servito prontamente e bene. Vuole essere trattato correttamente e con considerazione, non con servilismo e sentire che sta ottenendo, in cambio, il valore dei suoi soldi”.

Siamo nella fase 5: il martini come rimedio ai mali. Se sopravvivremo, racconteremo com’è andata. 

Note

1- Mauro Lotti, con oltre mezzo secolo di attività, è un decano dei bartender italiani. Inventore dell’Oyster Martini e del Martini Riposato, preparato lasciando ‘riposare’ gli ingredienti nel mixing glass col ghiaccio, senza girare, senza agire. Lo scricchiolio dei cubetti  di ghiaccio, a un certo punto darà il segnale che il cocktail è pronto. 

2 – Salvatore Calabrese lavora a Londra e costituisce una sorta di ambasciatore italiano all’estero per lo stile e il gusto del Bel Paese. Collezionista di bottiglie d’epoca, ha preparato il martini cocktail più vecchio del mondo, con un Park & Tilford New York Gin dei primi del 1900 e un Noilly Prat vermouth del 1890 circa.

3 – L’ASA, oggi ANSI, è l’istituto che si occupa di definire gli standard industriali, ed è noto come Istituto americano di normalizzazione.

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