A lezione da Simone Caporale, cronaca di un successo

Chi è un bartender e come si diventa un professionista di successo? Questi ed altri temi affrontati nel master in cui è emerso un vero e proprio ‘metodo Caporale’

Teatro Ambra, alla Garbatella di Roma. Un centinaio di bartender italiani sono riuniti lì per ascoltare un maestro del settore. La Flair Project ha avuto il piacere e l’onore di ospitare un fuori classe. Francesco Spenuso gli è stato appresso due anni. 24 mesi di contatti continui per organizzare l’evento. Alla fine quel sacrificio è stato ben ripagato. Vi facciamo un sunto di quello che è stata una lunghissima giornata con Simone Caporale, iniziata dentro quel teatro e finita la sera tardi nella nostra radio.

La sala del teatro piena, si parla a voce bassa, si attende l’ospite d’onore, quel Simone Caporale che per anni è stato ai massimi vertici mondiali con l’amico e collega Alex Kratena (con l’accento sulla “e”, mi raccomando). Miglior bar del mondo, il loro, quell’Artesian all’interno del Langham hotel che poi, d’un tratto, hanno abbandonato, proprio a ridosso della ennesima incoronazione. Tutti a chiedersi perché, e alzi le mani chi non ha pensato a qualche strana cospirazione. E invece? E invece Simone sale sul palco, si ‘spara’ un selfie come fosse lui quello a dover immortalare l’evento e inizia: “A novembre ho smesso di lavorare. Ci siamo chiesti cosa significa essere un bartender oggi. E la risposta non è stata facile. Per questo abbiamo deciso con Spenuso, che ringrazio, di incentrare la giornata su questo argomento”.

Caporale è tutto concettuale, pochi fronzoli, zero (o quasi) ricette. Ciò che conta è il concetto, l’idea.

E soprattutto come fare a svilupparla. “Per cinque anni ho avuto la fortuna di lavorare con 20 persone. E’ stato un privilegio. Penso di essere capitato al momento giusto, nel posto giusto. Abbiamo iniziato con la ricerca di un cocktail simbolico. Ogni hotel ne ha uno. E ci siamo concentrati sul concetto del martini cocktail. Abbiamo pensato alla coppa in ottone rivestita in nichel e argento per mantenere la temperatura fredda il più a lungo possibile”. E col tempo, quella semplice idea, inserita nel menu, è divenuta trainante. “Ci eravamo resi conto di quanto la gente fosse curiosa”. E lì, poi, la vera differenza: lo sviluppo pieno dell’idea che ‘tira’: “Avevamo fatto il disegno di quel bicchiere, lo abbiamo consegnato a una compagnia per farlo realizzare in serie”. Oggi quella coppetta è un’icona riconosciuta ovunque e chi ne possiede almeno una la custodisce con orgoglio. (A Roma , per esempio, la trovate al bar del Majestic. Chiedete un Martini cocktail a Broccatelli, per assaporarlo lì dentro). Per capire meglio la scelta fatta, ossia quella di affidare a un’azienda l’incarico di realizzare il bicchiere ottonato, con tutti i costi che un’operazione simile comporta, Simone spiega come la vendita dei gin martini si è incrementata di almeno sei volte.  “A quel punto, siamo nel 2009, 2010, abbiamo deciso di cambiare tutto il menu (premiato poi come il migliore dell’anno). Allora abbiamo capito che potevamo e dovevamo condividere la nostra visione del bar con persone che non fossero dei bartender. Persone che tuttavia, per le loro spiccate caratteristiche, come designer, architetti, fotografi, potessero contribuire nella nostra crescita, nello sviluppo delle nostre idee”. Altra regola stabilita, quella di non ripetersi mai. Ogni anno un’idea differente. Il cambiamento è anche una chiave di successo, in fondo. “Il continuo cambiamento avrebbe consento di far parlare la gente sempre di te, oltre che di avere nuove motivazioni. E c’è anche, lo ammetto, molto marketing in questo generare creazioni continue”.

Altra lezione impartita è quella per cui un bravo bartender dovrebbe usare prodotti locali, valorizzarli, perché ciò rende un servizio utile non soltanto alla comunità autoctona, ma soprattutto alla sua economia.

Idee su idee, Caporale non fa che sciorinare il suo verbo, e quando ogni tanto passa un drink sullo schermo e si accenna alla sua ricetta, tutti prendono carta e penna per segnare. Lui ci passerebbe sopra, in fondo è lì per raccontare una storia di successo e far capire come si intraprende una strada che porti in alto. A un certo punto ci prova pure a fare i suoi esempi, a spiegare nitidamente come ha fatto lui, come ha progredito con tutta la squadra. E’ avvenuto in modo semplice, in apparenza, “il futuro sarà nella semplicità” del resto, ripete più volte. Ma vediamo come ha fatto lui. “Pensateci, ogni sera finite di lavorare e poi magari ve ne andate a bere una birra o un drink da qualche parte. Giocherellate con lo smartphone. Ed è anche giusto, per carità. Siete stanchi, volete distendervi prima di andare a dormire. Io e Alex, invece, ogni sera, al termine del lavoro, ci sedevamo e per mezzora riflettevamo su un’idea. E quando parlo di mezzora, intendo proprio quel lasso di tempo: cronometrato col timer.

Né più né meno”. Pensateci, ogni sera mezzora di sviluppo di un’idea. Dopo un anno ne avrete a centinaia. Molte le butterete “ma una ventina vi rimarranno, e saranno valide. E su quelle potrete cominciare a giocare, a svilupparle meglio”.

Ecco spiegato il ‘metodo Caporale. Continuando ad ascoltarlo si resta incantati dalle sue parole e difficilmente si capisce il perché abbia abbandonato il bar (ma solo temporaneamente…). “Ammetto che mi manca quella routine giornaliera. Tuttavia, uno dei motivi per cui abbiamo lasciato l’Artesian è semplice, se ci pensate: a un certo punto qualunque idea ci venisse in mente, già avevamo i soldi per realizzarla. Dunque, bisognava fare due (non uno) passi indietro per ricominciare”. Per chi ha capito sul serio fino in fondo il discorso, ha pienamente ragione. Il ‘giochino’ di starsene la sera per mezzora a inventare qualcosa non era più possibile. Inevitabile allora cambiare territorio. La creatività nel bar è fondamentale, come il marketing  e la cucina (quando c’è). Spesso – ecco ancora un’altra lezione – tendiamo a credere che quegli aspetti citati siano i fondamentali. Invece in questo modo si lascia fuori un’altra parte del bar che potrebbe apportare il suo contributo. “Anche la hostess, se c’è, dev’essere creativa”. Prova ne è che nei suoi cocktail ha sempre coinvolto il maggior numero di personale possibile. Ognuno può essere portatore di un’idea, un’idea che magari può incontrare quella del cliente. “Il bar è come il calcio: servono undici giocatori, una squadra al completo, altrimenti non si lavora. A chi mi chiede di voler ambire a diventare uno dei bar migliori al mondo, io dico che non ha senso, allora”. E dunque, per concludere, chi dovrebbe essere oggi il bartender? “Per me essere un bartender è creare una consapevolezza di quello che è il bar anche dove il bar non c’è”, applausi in sala. E le sue famose ricette? “Lasciatele perdere, vorrei che vi portaste a casa un’idea nuova di come si fanno le cose. Andate via con questa consapevolezza!”.

Finito il master, Simone si è prestato a scatti di foto, strette di mano e selfie continui. Senza mai perdere il sorriso, come se avesse una sua ‘consapevolezza’. E chissà che non tiri fuori un nuovo cocktail, ricordandosi di noi.

Flair Project On AIR

La sera, dopo il master, Caporale è stato ospite della nostra trasmissione su Radio Kaos Italy, confermando la sua simpatia, signorilità e ‘ostentazione del lato semplice delle cose’. A noi ha regalato emozioni. Per chi se lo fosse perso, ecco il link al poadcast. Ascoltate fino alla fine, con l’intervista molto divertente in cui svela la sua versione ‘italiana’ del Side Car, con liquore al bergamotto, un pizzico di miele e…

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