Dick Bradsell, ve lo ricordate?

Ha stravolto le abitudini di consumo, ha creato cocktail di fama mondiale, ha rinvigorito una professione. Ogni bartender, oggi, dovrebbe sapere ciò che è stato “Dick” Bradsell

di Gaetano Massimo Macrì

Chi era costui? Dovreste saperlo? Assolutamente sì. Questo articolo è rivolto soprattutto a voi, ragazze e ragazzi che vi iscrivete ai corsi barman della Flair Project, approcciandovi a un mondo che ancora non conoscete bene o pensate il contrario, dall’alto della vostra beata giovane incoscienza! Leggerlo, dunque, vi farà bene, anche se una lettura ai vostri colleghi più grandi non guasterebbe. Incominciamo il ripasso.

Si chiamava Richard Arthur “Dick” Bradsell (sapere i nomi per esteso è un indice di acculturazione netto), era nato il 4 maggio del 1959 in Bishop’s Stortford, da Peter Bradsell e Margaret Elma Gurney e cresciuto sull’Isola di Wight, a sud della costa inglese. Pare fosse un ragazzino introverso, una sorta di topo da biblioteca, non sappiamo però se e quanto dar valore a questa notizia. Poi, nell’adolescenza, la svolta: si accosta a modelli più ribelli, la passione per il punk rock, finché una sera arriva una festa che gli lascia il devasto in casa.

Viene mandato via, per evitare altri danni e affidato alle cure dello zio Wicked , a Londra. E’ il 1977.

Lo zio era un uomo di marina e frequentava i suoi ambienti. Anzi, gestiva il Naval & Military Club in Piccadilly. È all’interno di quelle mura che Dick riceve il suo primo imprinting da bartender e non solo. “Conosceva tutti: la polizia, i criminali, le signore. La formazione completa che mi ha dato sarebbe stato difficile da trovare altrove. Al club facevano il ‘Pink gin’. Dove altro si può ancora avere un Pink gin a metà degli anni ’70?” diceva lo stesso Bradsell ricordando lo zio e quel periodo di formazione in cui si mise a lavorare nel club a testa bassa, imparando i primi rudimenti del mestiere. Immaginatelo, lui, quel 19 enne ribelle allontanato dalla famiglia, che prepara gin tonic e pink gin a ex ufficiali della Royal Navy, gente di un certo stile, abituata a essere servita secondo determinati canoni. Bradsell ha dovuto imparare in fretta l’arte dello stare tra gentlemen e al contempo quella della miscelazione di cocktail del passato. Un mix che lo segna per tutta la vita e che – ancora non lo sa – costituirà le solide basi per il suo futuro da bartender.

Brudsell-2L’equilibrio.

Era fissato con l’equilibrio di un drink. Oggi sembrerebbe banale, ma vi assicuro che anche da mani esperte ho bevuto coctkail squilibrati in maniera imbarazzante. Diceva Bradsell che per creare una nuova ricetta bisogna partire dai classici. I sapori dei principali elementi usati devono essere in equilibrio tra loro.

Là dove questo manca, dovete intervenire per colmare le lacune. Perché lo scopo è quello di creare un cocktail che dia sensazioni positive dall’inizio alla fine. Deve rimanere a lungo sul palato. “Voglio che i miei clienti godano così tanto da ordinarne un altro”. Bradsell quei grandi classici li aveva studiati e ristudiati tutti (altra lezione che dovreste apprendere) e aveva capito che, durante il Proibizionismo, attraevano per la loro apparente innocenza che contrastava la forza della loro alcolicità. Era questo, secondo lui, la base del loro fascino un po’ pericoloso.

Comunque, il giovane Dick alla fine degli anni ’70 inizia a lavorare anche allo Zanzibar.

In due anni impara come nessuno mai la lista dei cocktail del locale. Nei bar londinesi all’epoca era difficile rintracciare molti prodotti: “Mi ricordo di quando non c’era la vodka decente o la tequila, i bar di Londra erano senza limoni o lime, neanche i lamponi, la menta…”. Fu lui a iniziare un nuovo corso. A lavorare con frutta fresca, liquori e spiriti di qualità. Già al Soho Brasserie aveva creato il suo vodka espresso martini (rigorosamente con caffè espresso ‘fresco’). Un faro nella nebbia, questo è stato Brudsell.

Nell’era delle vodke aromatizzate, lui magari produceva Raspberry Martini e Russian Spring Punch. La bar culture londinese grazie a lui incomincia ad assumere un volto nuovo, la gente scopre il piacere del cocktail, esce per bere, non solo per andare in discoteca. Prima di Bradsell il bartender non era (più) una professione. Anche perché, ammettiamolo, a spillare una birra o a fare un mischione erano bravi in tanti. Il lavoro che Bradsell ha fatto è stato proprio quello di ridare dignità a questo mestiere. Ha dimostrato che c’era un ampio margine di miglioramento. Se non lo avete ancora compreso, ogni bartender di oggi dovrebbe ringraziare ciò che ha fatto il buon Dick. Se voi stessi vi siete iscritti al nostro corso di ‘American Bar’, lo dovete a lui. Sappiatelo. In altri termini, aveva preso sul serio la questione. Si era appassionato alla miscelazione grazie alla lettura del libro di David Embury, l’avvocato nerd del buon bere che nel 1946 aveva dato alle stampe il suo ‘The Fine Art of Mixing Drinks’.

Per Brudsell quello era diventato la Bibbia di riferimento.

A un certo punto della sua carriera, sul finire del secolo scorso, la fama raggiunta era tale da non limitarsi più soltanto a Londra. Grazie ai suoi discepoli e a bartender che prendevano le sue creazioni come modello, Dick Brudsell ha influenzato l’intera Gran Bretagna e l’Australia. Il Bramble è un altro dei suo cocktail mondiali, un suo biglietto da visita. Certo è che nella vita ci vuole pure fortuna, se si decide di diventare qualcuno. Nessuno però, almeno che io sappia, ha raggiunto la fama per puro caso. Si capita al posto giusto, nel momento giusto per qualche ragione. Lo stesso è accaduto sicuramente anche a Bradsell. Il giovane bartender lavorava nei club dove tra gli anni ’80 e ’90 si riuniva la élite artistica londinese. Tra lo Zanzibar, il Soho Brasserie e soprattutto il Fred’s Club, si era già ritagliato un nome. La gente sapeva che c’era qualcuno da cui andare a bere cose mai viste prima.

L’incontro con un importante imprenditore dell’industria del divertimento della vita notturna a quel punto sembrava inevitabile. Stiamo parlando di Oliver Peyton, l’uomo che chiama Bradsell per affidargli la gestione dell’ Atlantic Bar and Grill. Un ristorante sotterraneo a più livelli. Il bar era il più interrato e viene chiamato col nome di “Dick” Bradsell. La gente che frequentava Soho aveva scoperto un mondo nuovo, un luogo in cui andare a bere bene, fuori dalla massa di discotecomani o di altri bar comunque molto affollati.

L’esperienza però dura poco.

Dopo appena sei mesi Bradsell cambia. E continuerà a farlo. E’ troppo nomade la sua personalità e forse lui stesso è troppo desideroso di diffondere il suo punto di vista, impostando la start up di numerosi locali. Lui entrava, rinnovava il bancone, sceglieva i prodotti, costruiva la drink list, formava in ultimo il personale e andava via verso nuove avventure. Ha chiuso la carriera lontano dai riflettori. Non amava in verità mettersi in mostra (anche questa è una lezione da imparare oggi, soprattutto sotto l’esposizione continua dei social). Pare che uno degli ultimi locali che lo hanno visto al bancone sia stato il Pink Chihuahua, bar di un ristorante messicano, luogo anonimo nel quartiere di Soho. Ma a lui non penso importasse. Audrey Saunders, la proprietaria del Pegu Club di New York (mica pizza e fichi, questa è una che di atmosfera di locali se ne intende) diceva: “Ogni volta che si trova Dick in un bar, quello è il posto dove devi essere”. Si racconta di una volta in cui un barista andò a trovarlo al Colony Room, postaccio in cui lo stesso proprietario lo scoraggiava a preparare cocktail. Eppure a Dick piaceva lavorarci. Ebbene, nel vedere l’amico e collega, riuscì a preparargli un cocktail, pur in assenza dell’attrezzatura, nascostagli dal proprietario. Usò le dita come strainer e mantenne il solito aplomb.

In questo articolo abbiamo nominato tre dei sui cocktail (l’Espresso Martini, il Russian Spring Punch e il Bramble) tutti inseriti tra gli internazionali IBA. Ora, al di là dell’opinione che uno può avere di quella istituzione, trovatemi un ‘inventore’ di più di un cocktail – quando già è raro individuarne la paternità – inserito in quella lista. Non c’è da meravigliarsi se il The Observer lo ha definito il “Cocktail King”.

Dick non c’è più ormai. E’ morto di cancro al cervello il 27 febbraio 2016. Noi continuiamo a chiedere o a preparare cocktail ideati da lui o che (dovreste averne consapevolezza a questo punto) in qualche modo siano derivati dalla sua filosofia. Sulla Rete troverete molte notizie intorno a Dick Brudsell, molte che non avete letto qui. Alcune per scelta, perché le abbiamo ritenute inutili per presentarvi la sua figura, altre invece sarebbero state divertenti, ma non riportandole vogliamo sperare che vi facciate strada da soli in questo universo che è il mondo della mixology. Un po’ come ha fatto lui.

Aggiungo solo un dettaglio: a Roma esiste un luogo in cui poter rivivere certe atmosfere ‘Brudselliane’. E’ il ‘Cocktail Club’, bar all’interno del Porto Fluviale, da poco rinnovato e gestito dall’amico e bartender Federico Tomasselli. Il menù pensato da Federico è stato ispirato proprio a quel modo di intendere la miscelazione. Quindi il consiglio è quello di andare a trovarlo, per capire meglio da vicino chi è stato Richard Arthur “Dick” Bradsell. Riposi in pace, ovunque sia.